Orlando furioso

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GUIDA ALL’ASCOLTO

a cura di Fiorella Sassanelli

ORLANDO FURIOSO

dramma per musica in tre atti

Musica di Antonio Vivaldi (1678-1741)
Libretto di Grazio Braccioli (1682-1752)

Anno di composizione
1713-1727

Prima esecuzione
Venezia,Teatro Sant’Angelo, autunno(forse novembre)1727

IL COMPOSITORE

Antonio Vivaldi è stato uno straordinario talento del suo tempo, violinista e compositore tra i più influenti del Settecento. Eppure la sua riabilitazione risale al Ventesimo secolo. I dati biografici su di lui sono rimasti incerti per circa due secoli finché, nel 1938, col ritrovamento del certificato di morte a Vienna, e nel 1963, col ritrovamento del certificato di battesimo a Venezia, sono state accertate le date rispettivamente della morte e della nascita. Vivaldi riceve dal padre, che lascia presto la bottega da barbiere per entrare come violinista nella Basilica di San Marco, le prime lezioni di violino, mostrando subito i suoi prodigi. Affetto sin dalla nascita da una forma di asma bronchiale da lui definita “strettezza di petto”, si consacra alla vita religiosa non per vocazione, ma per volontà materna: è infatti sua madre che decide di affidare la vita del figlio appena nato a Dio, se questi avesse voluto concedergli la sopravvivenza. Storicamente, Vivaldi è una personalità d’artista nota al gran pubblico attraverso cronache più o meno verificate, racconti, romanzi che a lui si ispirano (Stabat mater di Tiziano Scarpa è stato anche Premio Strega nel 2009), e – come Bach – è spesso oggetto di letture musicali trasversali. Con le sue Quattro Stagioni si “cimentano” solisti e complessi, non solo professionisti (attratti da una scrittura sempre elettrizzante per gli archi), e con vari approcci, più o meno filologici. Negli anni non sono mancate neanche le letture jazz o classical-rock. Qualunque sia la veste con la quale la si ricopra, mai questa musica perde fascino, incisività e attualità. L’eredità di Vivaldi è anche un enorme corpus di opere per il teatro, che come e più degli irresistibili larghi vivaldiani delle sonate e dei concerti, aprono squarci di un lirismo ipnotico.

IL LIBRETTISTA

Nato a Ferrara, Grazio Braccioli è stato giurista e librettista, autore di nove libretti d’opera andati in scena al teatro Sant’Angelo di Venezia tra il 1711 e il 1715. Professore di diritto all’Università di Ferrara, Braccioli è stato altresì membro dell’Accademia degli Arcadi, fondata a Roma nel 1690, con lo scopo di purificare la lingua italiana e divenuta punto di riferimento per i maggiori letterati italiani del tempo.

IL SOGGETTO DELL’OPERA

Orlando è il protagonista del poema di Ludovico Ariosto, Orlando furioso, iniziato nel 1505 e pubblicato a Ferrara nel 1516, poi in edizione definitiva nel 1532. Concepito come continuazione del poema di Matteo Maria Boiardo Orlando innamorato (1483 e 1495), esso s’ispira al personaggio storico del conte palatino Orlando, nipote di Carlo Magno, morto nella battaglia di Roncisvalle nel 778, mentre rientrava da una spedizione in spagna. Le sue gesta hanno ispirato la Chanson de Roland(ca. 1110-1125) giunta in varie redazioni. Roland, tragédie en musiquein 1 prologo e 5 atti di Jean-Bapstiste Lully è il primo importante titolo che nel 1685 porta sul palco del teatro d’opera, a Parigi, le gesta di questo famoso personaggio. Nel 1778, sempre a Parigi, un altro italiano, Niccolò Piccinni, dedicherà a Orlando una delle sue opere più famose, la tragédie lyriquein 3 atti Roland. Pochi anni dopo Piccinni, Franz Joseph Haydn compone, l’Orlando paladino, dramma eroicomico in 3 atti. Nel 1782, l’opera, allestita nel castello di Eszterháza, rende omaggio al principe Nicola Eszterházy nel giorno del suo onomastico. Il libretto di Braccioli utilizzato da Vivaldi si prende molte libertà rispetto alla vicenda narrata da Ariosto: esso unisce la storia di Orlando a quella della maga Alcina innamorata di Ruggiero.

LA GENESI DELL’OPERA

Prima del debutto dell’Orlando furioso a Venezia nel 1727, Vivaldi si era già confrontato col personaggio di Ariosto, sempre al teatro Sant’Angelo, del quale il compositore era impresario. Qui, nel 1713 viene infatti rappresentato l’Orlando furioso con la musica di Giovanni Alberto Ristori sul libretto di Braccioli al quale collabora lo stesso Vivaldi. Forse soddisfatto dall’esito del lavoro svolto insieme, il compositore chiede al poeta un altro libretto sullo stesso argomento. Nel 1714 viene rappresentato, ma con scarso successo, Orlando finto pazzo. Per rimediare al fiasco, il compositore rimette in scena l’opera di Ristori, che lui stesso adatta al nuovo cast: recenti ricerche musicologiche hanno accertato che l’opera in questione è prevalentemente composta da musica di Vivaldi (secondo alcune fonti l’opera sarebbe stata diretta da Vivaldi padre e figlio). Alcuni anni dopo Antonio Vivaldi intende riprendere il libretto del 1714 per una nuova opera, ma nel frattempo Braccioli è tornato a Ferrara e non è dato sapere chi sia l’autore della nuova versione del libretto. Com’è consuetudine, Vivaldi riprende in parte la musica dei suoi precedenti lavori (c’è molto dell’Orlando del 1714) unita a nuova musica originale.

CORREVA L’ANNO 1727

  • 11 febbraio, con l’assedio della rocca di Gibilterra da parte della flotta inglese, ha inizio la guerra anglo-spagnola che si conclude nel 1729 con il nuovo assetto europeo: l’Inghilterra afferma la sua superiorità su Gibilterra e l’isola di Minorca, gli spagnoli con Don Carlos ottengono il diritto di governare sul ducato di Parma e Piacenza.
  • 20 marzo, muore a Londra Isaac Newton, cui si devono molte teorie matematiche e scientifiche riguardanti anche la fisica e l’astronomia tra cui la celeberrima legge di gravitazione universale, descritta nel trattato Philosophiae Naturalis Principia Mathematica. Newton viene sepolto nella Cattedrale di Westminster, sulla tomba viene incisa l’espressione che segue “Sibi gratulentur mortales tale tantumque exitisse humani generis decus” (Si rallegri il genere umano perché è esistito un tale e così grande onore del genere umano).
  • 30 marzo, a Bitonto nasce il compositore Tommaso Traetta. Dopo gli studi a Napoli, lavora in molte città italiane. Il successo delle sue opere diffonde la sua fama in Europa e nel 1768 chiamato a San Pietroburgo come compositore imperiale alla corte di Caterina I, poi a Londra. Muore a Venezia, nel 1779.
  • 11 aprile, nella chiesa di San Tommaso, a Lipsia, viene eseguita per la prima volta la Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach. Il lavoro non viene eseguito fuori da Lipsia sino al 1829 quando Felix Mendelssohn propone una versione abbreviata a Berlino.
  • 17 maggio muore a Mosca la zarina Caterina I, seconda moglie di Pietro I di Russia, salita al trono appena due anni prima, dopo la morte del marito. Il giorno seguente le succede Pietro II, nipote di Pietro il grande e ultimo discendente dei Romanov.
  • 30 agosto, a Venezia nasce il pittore Giandomenico Tiepolo, scolaro e collaboratore del padre Gianbattista.
  • Lo scrittore inglese Daniel Defoe (1660-731), autore di Robinson Crusoe (1719), pubblica il saggio dal titolo Conjugal Lewdness or, Matrimonial Whoredom (Lascivia coniugale o fornicazione matrimoniale) in cui mette al bando ogni pratica contraccettiva, giudicandola “diabolica” e pari all’infanticidio.

LA FORTUNA

In assenza di notizie certe circa la fortuna dell’opera al tempo del compositore, la riproposizione di alcune arie dall’Orlando all’Atenaide (Firenze, carnevale 1729) basterebbe da sola a confermarne il successo di un lavoro il cui manoscritto Vivaldi tiene per sé; esso è stato ritrovato a 250 anni di distanza, nella sua personale biblioteca, conservata presso la Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino.

La rinascita di Orlando alla fine del Ventesimo secolo è stata inizialmente promossa da Claudio Scimone, direttore dei Solisti Veneti, che nel 1978, per il trecentenario della nascita di Vivaldi, ha proposto l’esecuzione dell’Orlando al Teatro Filarmonico di Verona, presentando l’opera col titolo Orlando furioso. Scimone è intervenuto sulla partitura, apportandovi dei tagli e cambiando l’ordine di alcuni recitati e arie. Si è trattato di un’esecuzione di pregio, affidato a un cast tra cui vale la pena di ricordare il contralto Marilyn Horne (Orlando), il mezzosoprano Lucia Valentina-Terrani (maga Alcina) e il baritono Sesto Bruscantini (Ruggiero).

Tra le successive versioni si segnala l’edizione discografica curata per CPO dal massimo esperto di Vivaldi, Federico Maria Sardelli a seguito della pubblicazione per Ricordi dell’edizione critica della partitura da lui curata (2012). Nel 2004 per Naïve l’esecuzione dell’Orlando furioso, in una versione precedente l’edizione critica di Sardelli, è stata incisa da Jean-Cristophe Spinosi col controtenore francese Philippe Jaroussky nel ruolo di Ruggiero, in una produzione andata in scena al Théâtre des Champs Elysées a Parigi nel 2011. Nel 2012 Sardelli ha diretto per Naïve, all’interno della collana Vivaldi editions, l’Orlando del 1714. Sebbene siano rimasti solo i primi due atti, il lavoro è una preziosa testimonianza delle fasi che condussero il compositore al suo capolavoro del 1727 e confermano l’originalità della musica di Vivaldi rispetto a un’opera la cui paternità è stata finalmente svelata.

PROFILO STORICO-ESTETICO

Vivaldi era un uomo vanitoso e, come spesso accade agli artisti, dotato di quello spiccato egocentrismo che è spesso causa di antipatie e cattiverie. Le testimonianze dei contemporanei non sono infatti per nulla sincere quando accusano il compositore, che pure godeva di ampi favori da parte del pubblico, di scadenti e “moderne” esercitazioni. Suo è piuttosto il merito di aver sfruttato ampiamente le possibilità melodiche dell’ottava. Vivaldi ha il dono innato dell’invenzione melodica, sebbene le sue melodie siano costruite a partire da brevi unità poste in successione. Il compositore fa uso ricorrente della progressione, ma riscatta la ripetitività con l’interesse della struttura. Sebbene oggi sia ricordato prevalentemente per la musica strumentale, in vita il compositore si vantava di aver composto 94 opere per il teatro, 45 delle quali sono confermate dall’esistenza dei libretti, mentre solo 16 sono giunte complete. Vivaldi non ha la stessa abilità architettonica di Monteverdi o Cavalli ma la sua forza è nei singoli momenti. In lui l’istinto nel trasferire in suoni l’affetto delle parole è immediato e sebbene talvolta le sue melodie prendano nel corso dell’aria strade diverse da quelle del testo, le sfumature dinamiche e del fraseggio toccano vertici di espressività tanto nel vivace che nel patetico che rendono la sua musica spontanea quanto audace.

ELEMENTI DELL’OPERA

Struttura drammatico-musicale. La rielaborazione nello stesso libretto del soggetto di Orlando con il personaggio della maga, aggiunge elementi magici al contesto eroico di partenza. Ciò crea effetti spettacolari durante l’allestimento, in particolare nel secondo atto quando la montagna della scena si trasforma in un antro scuro: musicalmente il passaggio è reso dalla transizione a mi bemolle maggiore dall’iniziale fa diesis minore. I due punti drammaturgici di maggior interesse sono costituiti dalla follia di Orlando e dal ruolo di Alcina. Al primo Vivaldi dedica un’ampia sezione, sempre nel secondo atto, variamente articolata tra recitativi, arioso e aria vera e propria che rinuncia alla consuetudine del da capo: un tale procedimento formale risulterebbe infatti poco credibile in un contesto in cui la musica e il testo alludono alla perdita della lucidità. A fronte della capacità di caratterizzare tutti i personaggi, Vivaldi riserva una particolare attenzione alla maga, destinandole sei arie, un numero importante, probabilmente utile anche a gratificare la sua prima interprete, il contralto Anna Girò, nome d’arte di Anna Maddalena Tessieri, particolarmente nota per la lunga o costante collaborazione professionale col compositore veneziano.

Elementi musicali. La ricchezza della partitura (con l’orchestra composta da flauto traverso, due trombe, due corni da caccia, archi e basso continuo) è data dell’esplosione di sorprese sul piano melodico e armonico. Alla felicità dell’inventiva delle singole arie – quella di Ruggiero “Sol da te, mio dolce amore” esibisce un contrappunto strumentale al flauto di notevole virtuosismo – va aggiunta la presenza di un numero significativo di recitativi accompagnati di sorprendente drammaticità.

LA VICENDA

PERSONAGGI E VOCI

Orlando, innamorato di Angelica CONTRALTO
Angelica, amante, poi sposa di Medoro SOPRANO
Alcina, maga innamorata di Ruggiero MEZZOSOPRANO
Bradamante, sposa di Ruggiero, poi in abito da uomo sotto il nome di Alderico CONTRALTO
Medoro, amante, poi sposo di Angelica CONTRALTISTA
Ruggiero, sposo di Bradamante CONTRALTISTA
Astolfo, innamorato di Alcina BASSO

LUOGO E DATA DELL’AZIONE

Tempo indefinito, sull’isola incantata della perfida maga Alcina.

ATTO I

Angelica è nel cortile del palazzo della maga Alcina alla quale chiede di aiutarla a ritrovare Medoro, il suo amato. Ne ha perso le tracce mentre tentava di fuggire da Orlando, innamorato di lei, che la inseguiva (Angelica: “Un raggio di speme”). Alcina interrompe uno scontro tra Orlando e Astolfo e tenta di sedurre Orlando il quale confessa che il cuore è vinto da Angelica. Alcina gli rivela che la donna è da lei e lo invita a fermarsi (“Alza in quegli occhi”). Rimasti soli, Astolfo rivela a Orlando la vera identità di Alcina e si rammarica dell’indifferenza della maga nei suoi confronti (“Costanza tu m’insegni”). Orlando invoca l’intervento di Amore perché scocchi un suo dardo verso il cuore di Angelica, quando incontra Bradamante venuta in cerca dell’amato Ruggiero. Bradamante non ha paura di sfidare la maga: Melissa infatti le ha donato un anello magico che la rende invulnerabile ed invisibile (“Asconderò il mio sdegno”). Rimasto solo, anche Orlando si appresta a sfidare la maga (“Nel profondo”). Dal giardino, Angelica osserva il mare in tempesta e assiste al naufragio dell’amato Medoro che trae in salvo appena in tempo. Lui teme di morire ma Alcina sana le sue ferite e Angelica le è debitrice. Mentre Medoro racconta alla sua amata i dettagli del naufragio, irrompe Orlando. Accecato dalla gelosia vorrebbe uccidere Medoro, ma Alcina lo distoglie facendogli credere che questi è il fratello di Angelica. Angelica sta al gioco, e sebbene non sia sincera nel giurare fedeltà ad Orlando (Angelica: “Tu dei degli occhi miei”; Orlando: “Troppo è fiero il nume arciero”), Medoro stenta a trattenersi e si sfoga con Alcina (“Rompo i ceppi, e in lacci io torno”). Su un destriero volante nel giardino di Alcina atterra Ruggiero. La maga è accecata dalla sua bellezza, lo invita a fermarsi. Lui non trova la donna tanto bella quanto Bradamante, ma accetta l’ospitalità: si disseta a una fonte, e immediatamente cade ai suoi piedi. Bradamante, arrivata all’improvviso, è furiosa. Lo accusa di tradimento ma l’amato non la riconosce nemmeno. Lei finge allora di chiamasi Olimpia e di essere stata abbandonata dal marito Bireno. Ruggiero e Alcina la credono uscita di senno (“Sol da te, mio dolce amore”). Rimasta sola, Alcina deride Bradamante: se crede che Ruggiero sia Bireno, si inganna, se invece lo crede Ruggiero, non ha ugualmente alcuna speranza (Bradamante: “Amorose ai rai del sole”).

ATTO II

In un boschetto Alcina è sola con Astolfo; lui la ama e soffre per la sua incostanza, ma lei lo disillude (Alcina: “Vorresti amor da me”). Rimasto solo, Astolfo è raggiunto da Bradamante che rinfaccia all’amico la sua debolezza nei confronti della maga, e lo sprona ad essergli solidale (Astolfo: “Benché nasconda la serpe in seno”). Sopraggiunge Ruggiero che continua a non riconoscere Bradamante finché lei non gli consegna l’anello ricevuto in pegno da lui stesso; l’anello dissolve l’incantesimo di cui lui è vittima. Intanto a loro si è unito Orlando che sostiene moralmente Ruggiero. Bradamante non è ancora disposta a perdonare il suo amato e anzi lo invita a tornare da Alcina con quello stesso anello per comprendere chi lei sia realmente (“Taci non ti lagnar”). Ruggiero è amareggiato e Orlando lo rassicura (Orlando, “Sorge l’irato nembo”).
Medoro e Angelica si ritrovano: i due saranno presto sposi, annuncia lei, ma questa notizia non basta a rassicurare Medoro, ancora impensierito dalla presenza di Orlando (Medoro: “Qual candido fiore”). E non a torto: Angelica progetta infatti di liberarsi di Orlando, causandone la morte giù da una rupe, e lo corteggia. Per lei il cavaliere accetta di sfidare una bestia feroce posta a guardia di un vaso contente dell’acqua miracolosa di giovinezza (Angelica: “Chiara al pari di lucida stella”). Orlando si incammina verso l’impresa quando Astolfo lo distoglie, illudendosi di poter contare nella collaborazione di Angelica. Orlando è determinato e comincia la scalata, rinvigorito dalla pericolosità della sfida. Chiama a gran voce il mostro ma gli risponde una voce: Orlando è prigioniero di Alcina in una spelonca senza uscita. Angelica lo ha dunque tradito ma Orlando non si arrende e riesce ad aprirsi una strada verso l’esterno (recitativo e aria: “Precipizio, ch’altrui morte saria”). Nel frattempo Bradamente e Ruggiero si incontrano di nuovo e si riconciliano (arie: Ruggiero, “Che bel morirti in sen”, e Bradamante, “Se cresce un torrente”).
Angelica e Medoro sono dunque sposi. Alcina benedice le loro nozze, ma è costretta ad allontanarsi perché impensierita dall’assenza di Ruggiero. La vista degli sposi l’immalinconisce (Alcina: “Così potessi anch’io”). Angelica e Medoro si rammaricano per la tristezza di Alcina ma sono presi dal reciproco amore e continuano a giurarsi fedeltà (“Belle pianticelle, crescete, verdeggiate”). Sopraggiunge Orlando Quando il cavaliere realizza del matrimonio tra Angelica e Medoro è avvilito e disperato (“Ah sleale, ah spergiura”).

ATTO III

Dinanzi al tempo di Ecate, che è chiuso da un muro d’acciaio, Astolfo è convinto che Orlando sia morto e propone a Ruggiero di dargli una sepoltura onorata e intanto di vendicarsi di Alcina con l’aiuto della maga Melissa (“Dove il valor combatte”). Ruggiero è raggiunto da Bradamante, vestita con abiti da cavaliere, la quale lo avverte che anche il potere di Melissa si ferma dinanzi al muro d’acciaio che chiude il tempio. Alcina, indispettita dall’indifferenza che le dimostra Ruggiero, evoca i “numi orrendi d’Averno”, ma invano, grazie al potere dell’anello di Melissa. Ancor più indispettita, Alcina intende ricorrere allo spirito di Merlino e ordina alle mura d’acciaio di aprirsi (“L’arco vuò frangerti”). Bradamante decide allora di intervenire contro la maga, in difesa del suo amato: dichiara di chiamarsi Aldarico e di essere alla ricerca di quel Ruggiero che ha sedotto sua sorella. Alcina è colpita dalla bellezza del volto di questo misterioso cavaliere e non resta insensibile al suo corteggiamento. Entra in scena a questo punto Orlando, delirante per la pazzia. Alcina, Bradamante e Ruggiero lo compatiscono. L’arrivo di Angelica che canta (“Così langue”) altera ancor più Orlando: il cavaliere prova ad afferrare la donna amata che riesce però a fuggire (“Poveri affetti miei”). Orlando la segue in preda alle allucinazioni. Bradamante/Aldarico strappa adAlcina il segreto dell’invulnerabilità di Aronte, il feroce guardiano guerriero del tempio, e accetta l’invito della maga ad attenderla in una radura (“Io son ne’ lacci tuoi”). Intanto Ruggiero teme per la sua Bradamante, mentre Medoro lo accusa di incostanza. Tra i due paladini nasce uno scontro al quale assiste, non vista, Angelica. La donna resta in disparte finché Ruggiero strappa la spada dalle mani di Medoro. Lei allora interviene per difendere il marito: offre il suo petto a Ruggiero che parte sdegnato (“Come l’onda”). Medoro, innamorato di Angelica, teme per lei (“Vorrebbe amando il cor”). Orlando è in pieno delirio: scambia la statua di Merlino per Angelica e per liberarla, affronta Aronte e lo uccide (“Sorge il sangue”). Poi si avvicina alla statua che crede essere Angelica, la abbraccia, la strappa per condurla via, ma così facendo scatena un terremoto: ormai ha rotto l’incantesimo, crolla il tempo e l’isola appare deserta. Orlando è molto stanco e si addormenta (“Quanto fracasso!”). Alcina è disperata, ha perso i suoi poteri e vorrebbe uccidere Orlando, che però dorme ancora, ma Ruggiero e Bradamante (che svela la sua identità) la fermano in tempo. Bradamante si scaglia contro Angelica, accusandola della follia di Orlando. Giunge intanto Astolfo; uno dei soldati di Logistilla che sono con lui, reca in mano una fiaccola (“face”) accesa, che è “lo smarrito lume della mente d’Orlando”, di cui lo stesso Astolfo è venuto in possesso. I cavalieri svegliano Orlando che alla vista di quella fiamma ritrova la ragione. Alcina però non si arrende e minaccia infernali vendette contro chi l’ha tradita (recitativo accompagnato, “Oh ingiusti numi!”, e aria, “Anderò, chiamerò dal profondo”). Orlando perdona Angelica e benedice le sue nozze con Medoro. Le ultime parole sono per la morale di Astolfo che dichiara “saggio chi dal suo fallir, prudenza impara”. Lieto fine del coro (“Con mirti e con fiori”).

UN MONDO DI METAFORE

Note di regia di Fabio Ceresa
…Ve’ come van per queste piagge e quelle con scintille scherzando ardenti e chiare, volte in pesci le stelle, i pesci in stelle…
(G.B. Marino, Tranquillità notturna, 1614)

 

Non esiste un’opera settecentesca che riassuma in sé tutta la poetica della meraviglia barocca meglio dell’Orlando furioso. Isole fatate, animali volanti, donne guerriere, cavalieri invincibili; e ancora maghe crudeli, filtri d’amore, urne magiche, grotte segrete: non manca nulla nel caleidoscopico libretto di Grazio Braccioli. Condensare in tre atti soltanto l’inesauribile miniera di trame del poema di Ludovico Ariosto non dev’essere stata un’impresa facile. L’episodio della maga Alcina, che nel Furioso occupa appena due canti (il sesto e il settimo) viene dilatato dal librettista in un’arcata che abbraccia tre ore di musica, e che comprende personaggi e sottotrame di altri canti: la fuga di Angelica e il suo amore per Medoro, la parabola di Astolfo, le relazioni complicate di Ruggiero e Bradamante, la follia e il rinsavimento di Orlando.

La reggia dei piaceri di Alcina, d’altro canto, era un luogo troppo affascinante per non farne lo sfondo ideale alle peripezie dei nostri personaggi. Da Circe e Calipso fino ad Ersilla e Armida, il topos della maga che incanta i cavalieri erranti e li lega a sé con un guinzaglio d’amore ha ispirato poeti, artisti e musicisti per più di due millenni. Né la maga dimentica di ricordarci di quale pasta sia fatta: “se avessi un solo amante / fra le donne sarei donna volgare” commenta soddisfatta prima dell’arrivo di Ruggiero. La sua sensualità prepotente, esuberante, l’insaziabile fame di passione ne fa l’archetipo della grande madre. Il suo trono e quello su cui siede Venere nell’Olimpo sono fabbricati con lo stesso metallo. Così i malcapitati che le capitano a tiro vengono sedotti da una brama di fisicità che non trova fine: al loro collo, siano uomini o donne, viene apposto un collare che ne segna il possesso esclusivo, l’appartenenza al mondo magico di Alcina. Nella sua corte dorata e decadente vivono giovani schiavi d’amore sempre pronti a soddisfare ogni sua voglia, quasi fossero estensioni fisiche della sua incontenibile fame. La passionalità della maga è tanto più interessante se confrontata al personaggio di Orlando. Oscuro cavaliere citato attorno al 1100 nella Chanson de Roland, il paladino di Carlo Magno si è fatto largo nella tradizione italiana che, oltre ad averne stabilito i natali ad Imola, l’ha trasformato nel personaggio di gran lunga più apprezzato della letteratura del tempo. Specificandone, oltretutto, il carattere. Da figura austeramente esemplare, Orlando viene reso via via un vero fanatico della castità: nello Pseudo-Turpino si sottolinea come non abbia mai avvicinato una donna, nemmeno sua moglie. Puro come un cavaliere templare o un samurai, Orlando è del tutto insensibile al richiamo della passione. Campione di raziocinio e riflessività, è un guerriero galante che salva le fanciulle dai draghi senza chiedere in cambio nemmeno un bacio. Da un lato, quindi, la sfrenata pansessualità di Alcina: al lato opposto, l’impenetrabile castità di Orlando, al cui collo la maga non riuscirà a chiudere il collare per legarlo a sé. È questa la direzione in cui abbiamo voluto spingerci nel tratteggiare Orlando: un personaggio dalla fisicità scomoda e imbarazzata, che non ama contatti fisici né tantomeno scambi di effusioni, neppure dalla propria cugina Bradamante o addirittura dalla bellissima Angelica, di cui pure è innamorato.

Alcina e Orlando si trovano ai lati opposti di uno stesso tratto narrativo. Da un lato la sfrenatezza animale della maga; dall’altro la vergine umanità del paladino. Entrambi nel corso dell’opera vivono un’evoluzione uguale e contraria. Alcina, innamorata di Ruggiero, scoprirà in sé un’anima che cerca l’amore esclusivo e che vive nella ricerca della tenerezza (pensiamo all’aria Così potessi anch’io). Orlando, di contro, nella sua follia perde ogni freno inibitore, scoprendo in sé una furia che inghiotte ogni cosa. La novità del Boiardo, con il suo Orlando innamorato, fu appunto questa: presentare l’inscalfibile superuomo vittima finalmente delle tentazioni amorose. Ariosto si spinge oltre: la continenza sessuale, elevata a completa padronanza di sé, verrà dispersa nella follia amorosa. Quando la lucidità di Orlando trasmigra alle stelle, al suo posto troviamo un uomo tornato allo stato di natura, una belva feroce che sradica le querce. Né termina qui il parallelismo tra Alcina e Orlando. La trasformazione di entrambi nasce dal tentativo, frustrato, di dividere una coppia. Le vittime dei trabocchetti di Alcina sono Ruggiero e Bradamante. Destinati ad unirsi in matrimonio e diventare capositipiti della casa d’Este, in Ariosto si perdono e si rincorrono lungo tutto il poema. Non diversamente nella nostra opera: tra incontri, scontri, litigi e riappacificazioni, il loro frenetico amore sembra accendersi al fuoco di un continuo confronto. A Bradamante, la donna guerriera, il libretto riserva un’accezione tutta positiva. La sua presenza in scena è sempre fonte di energia vitale e carismatica passione. Il bel Ruggiero, di contro, si abbandona a contemplazioni estatiche dell’universo. La sua personalità vola nell’alto del cielo sulle ali di un ippogrifo: la bellezza delle sue arie (pensiamo a Sol per te mio dolce amore) non appartiene a questo mondo. L’altra coppia del nostro intreccio, quella che metterà a dura prova il senno di Orlando, è composta invece da Angelica e Medoro. In mezzo a tanti nobili cavalieri e paladini del Re, Medoro non è che un misero soldato semplice della fanteria saracena, peraltro poco più che adolescente. Forse proprio per questo Angelica, la bellissima principessa orientale che fa perdere la testa a tanti conti e duchi, finisce per innamorarsi proprio di uno spiantato. Lei che ai suoi piedi ha gli imperatori si incapriccia di un fragile ragazzino imberbe. Oggi lo definiremmo “animo da crocerossina”: ma tant’è, il rapporto tra i due ricorda più quello tra una madre iperprotettiva ed un bambino bisognoso di costanti attenzioni. In questa giostra di personaggi ne rimane all’appello soltanto uno. Una scheggia impazzita che passa da una fazione all’altra, ma dialogando con tutte. Astolfo, che è inizialmente innamorato di Alcina per poi liberarsi dalla catena che lo lega a lei, recupera sulla luna il senno di Orlando e sconfigge per sempre il potere della maga. È lui il vero motore del testo. Vive circondato dal meraviglioso e si avvale di oggetti magici e cavalli alati: ma senza perdere un ette del suo carattere così genuinamente umano. In questo gioco teatrale di scambi, equivoci, agnizioni, ritrovamenti e metamorfosi, i costumi non possono non giocare un ruolo fondamentale nella narrazione della storia. La fantasmagoria di luce immaginata da Giuseppe Palella, l’incessante spogliarsi e rivestirsi di vesti e armature, è un elemento fondamentale della concezione drammaturgica del testo, e quello che richiama più da vicino il turbinio di colori che ritroviamo in Ariosto.

Non è da meno la scenografia. Massimo Checchetto ha disegnato uno spazio dove si incontrano le altezze del cielo più vertiginose ed i più profondi abissi dell’oceano. Come nella metafora barocca di Giambattista Marino, ci troviamo in un mondo dove il cielo e il mare si baciano e si confondono: specchiandosi l’uno nell’altro, le stelle diventano pesci e i pesci stelle. La luna che ci guarda da lassù, proprio là dove Orlando perde il senno, non è che il riflesso della conchiglia marina dove Alcina ha stabilito la sua reggia. Su questo ponte gettato tra mare e cielo si incontrano le fantasie rinascimentali e i ghirigori barocchi. Dall’ippogrifo, il cavallo alato dalla testa aquilina che sarà l’ottavo personaggio del nostro racconto. Da Merlino, il potente mago del ciclo bretone, qui prestato al carolingio per farne l’incarnazione di un universo maschile che si contrappone alla femminilità di Alcina. Su su fino ad arrivare all’invincibile guerriero Aronte, e persino ad un archibugio, buffo anacronismo nel medioevo di Carlo Magno, descritto con dovizia di particolari da Ariosto nel nono canto. Tutto è permesso nell’Orlando furioso perché, come ci ricorda Calvino, “è un mondo tutto fatto di metafore”. Sta a noi spettatori trovare la nostra: insieme ai personaggi dell’opera, possiamo anche noi gettare una rete in mare, nella speranza di pescare una stella.

LE STRAVAGANZE DI ORLANDO

IL TITOLO ECCENTRICO D’UN OPERISTA RITROVATO
di Raffaele Mellace

L’OPERISTA REDIVIVO SULLE ORME DEL PALADINO

Ogni anno che passa Antonio Vivaldi sfugge sempre più alla qualifica di virtuoso del violino ed (eccelso) autore di musica strumentale, per guadagnare agli occhi dei posteri quel nome inseguito per tutta la maturità, dal 1713 alla vigilia della morte: il titolo di operista. Se infatti la produzione strumentale del “prete rosso” era già pubblicata interamente all’altezza del 1972, è stato necessario attendere gli scorsi decenni per la riscoperta di quest’altra, vasta e lussureggiante regione della creatività vivaldiana, riproposta in scena (in primis nel contesto meritorio e pionieristico dei festival, spesso italiani) e in disco da una nuova generazione di interpreti, portatrice d’un approccio rinnovato verso la cosiddetta musica antica, forte di mezzi (tecnica vocale, strumenti originali) adeguati a restituirne sound e stile, nonché coadiuvata da una ricerca musicologica in grado di interpretare fenomeni tanto distanti da noi (lo studio di riferimento, The Operas of Antonio Vivaldi di Reinhard Strohm, è uscito nel 2008 per l’editore Olschki). Oggi il catalogo operistico vivaldiano è, con quelli di Handel e Pergolesi, l’unico d’un compositore del primo Settecento a poter vantare un’esplorazione sistematica in campo discografico e una presenza, se non stabile perlomeno relativamente ricorrente, perfino nei cartelloni dei maggiori teatri italiani. Il Festival della Valle d’Itria ne propone oggi uno dei titoli più suggestivi e stravaganti, tanto nel catalogo del compositore quanto nel panorama operistico coevo.

Il dramma per musica Orlando furioso di Grazio Braccioli andò in scena per la prima volta a Venezia, al Teatro di Sant’Angelo, il 9 novembre 1713 con musica di Giovanni Alberto Ristori, compositore destinato a una carriera Oltralpe, alla Corte di Dresda. Della ripresa dell’opera un anno più tardi, nel dicembre 1714, si occupò Vivaldi, all’epoca impresario e compositore del Sant’Angelo, e forse già coinvolto anonimamente anche come autore nel corso delle recite dell’allestimento originario. Il “prete rosso” intervenne sulla partitura di Ristori con molta musica propria, confezionando una versione destinata a notevole circolazione sulle scene europee. Fresco di debutto operistico (1713), Vivaldi aveva già avuto modo d’occuparsi del soggetto mettendo in musica l’Orlando finto pazzo, sfortunata opera d’apertura di quella medesima stagione d’autunno 1714, sempre su un libretto di Braccioli basato sull’antecedente dell’Ariosto, il poema di Boiardo (il drammaturgo avrebbe completato una propria trilogia cavalleresca col Rodomonte sdegnato, musicato l’inverno successivo da Michelangelo Gasparini). Tre lustri più tardi Vivaldi riprese in mano il libretto dell’Orlando furioso, modificato in misura assai modesta, per intonarlo interamente di proprio pugno. L’opera ritornò così al Sant’Angelo nel novembre 1727, quando Vivaldi ricopriva ancora plausibilmente la carica di direttore della musica, col titolo di Orlando, forse per marcarne le distanze dal prototipo più antico (benché nella partitura autografa compaia tranquillamente l’aggettivo furioso). Della versione a quattro mano con Ristori, Vivaldi ritenne le scene conclusive dell’atto II, di cui ripropose in qualche misura anche la musica. La stratificata storia dell’Orlando coinvolge però anche l’Orlando finto pazzo, da cui provengono gli ultimi due numeri dell’opera più recente (incluso l’estremo numero solistico, la spaventosa aria di furore di Alcina «Anderò, chiamerò dal profondo») e si proietta, tramite la ripresa di singole arie, verso opere successive, di Vivaldi (ben dieci arie dell’Orlando furioso confluirono impunemente nell’Atenaide, in scena in una piazza diversa, Firenze, due anni dopo) e non (un’aria risuonò nel pasticcio Catone in Utica allestito da Handel a Londra).

IL CAPRICCIO CAVALLERESCO DEL GIURISTA FERRARESE

Il librettista ferrarese Grazio Braccioli (1682-1752) rappresenta un tipo assai diffuso di intellettuale del primo Settecento (Carlo Goldoni ne è l’esempio più illustre), che coniuga solida formazione giuridica e passione per il teatro. In Braccioli, accademico di varie istituzioni, prevalse per fortuna la vocazione forense, che lo portò alla cattedra a Ferrara nonché a diversi uffici pubblici, non prima però d’aver proposto nel lustro 1711-15 ben nove drammi per musica sulle assi del Teatro di Sant’Angelo. Con l’Orlando furioso s’inserì in particolare nella lunga scia delle riduzioni teatrali del poema, tra le fonti più fortunate del melodramma barocco (il solo Handel vi dedicò una trilogia). Facendo ampio uso di quella licenza rivendicata nella prefazione al Rodomonte sdegnato («egli è permesso allentar il freno [rispetto alle regole canoniche della tragedia] e […] dare un più grazioso risalto all’armonia delle parti che danno piacere vedute ed udite in teatro e non lette solo in un libro»), Braccioli saccheggia a piacere una serie di luoghi ariosteschi (soprattutto dai canti VI-VIII, XXIII e XXXIX), senza lesinare citazioni dal poema («Irriterò contro i tuoi sciocchi errori / le donne, i cavaglier, l’arme e gl’amori», III,5) o lepidezze sentenziose («Che se il pria amato error poscia si abborre, / costanza è allora il variar pensiero», III,7), ricomponendoli attorno a due principali filoni narrativi (facenti capo rispettivamente alle terne Orlando-Angelica-Medoro e Bradamante-Ruggiero-Alcina) in un intreccio artificioso, congestionato e poco consequenziale, caratterizzato dall’andirivieni caotico dei diversi personaggi, che immancabilmente compaiono in scena giusto in tempo per sortire l’effetto desiderato. Un intreccio tanto illogico, sospeso in una fiabesca atemporalità, vicino a sciogliersi precocemente già all’avvio dell’atto II, è naturalmente un mero pretesto per esibire quella spettacolarità romanzesca del Furioso che aveva affascinato librettisti e compositori quale fonte di vicende di «armi», di «amori» e magia, su un duplice versante: il traviamento irrazionale dell’eros nell’«orrenda» follia di Orlando e l’ambito del meraviglioso, popolato di maghi e incantesimi, che ha nel cuore dell’atto II uno dei momenti più spettacolari, per culminare nei due cambi a vista della scenografia, in corrispondenza di altrettanti incantesimi, in quel tempio infernale di Ecate che assicura l’unità di luogo dell’atto III. Né Braccioli rinuncia allo sfruttamento comico della pazzia di Orlando, tra le opzioni più popolari nelle riduzioni melodrammatiche del soggetto, fondata sul capovolgimento ariostesco della figura del cavaliere cortese nella ferocia belluina di un bruto nudo. Nell’atto III l’irruzione di Orlando dissennato, che affronta i suoi interlocutori con un repertorio colorito di gags comiche, dallo scambio di persona ai barbarismi (squarci del discorso delirante del paladino sono in francese), dalla commistione di registri retorici eterogenei (con cedimenti del livello alto a plebeismi quali «cera brutta», «bocca asciutta», «bordello», o imprecazioni come «ventre bleu») a sollecitazioni coreografico-musicali prontamente accolte dal compositore, che a un certo punto accenna alla popolarissima melodia di origine portoghese della follia.

DONNE ISTRIONE E CAVALIERI DISTURBATI

Come consuetudine in questo repertorio, la partitura venne tagliata su misura del cast per cui Vivaldi si trovò a scrivere, che nello specifico presenta un’eccezionale concentrazione nel registro di contralto. Le due prime parti dell’opera, Orlando e Alcina, erano interpretate nel 1727 da due donne (singolarmente: nel 1714 infatti Orlando era stato un basso, nelle riprese successive un tenore!), rispettivamente Lucia Lancetti, protagonista della ripresa del Farnace in quella stessa stagione d’autunno e specialista di ruoli en travesti (nonché meritoria nel risparmiare al teatro la spesa ingente d’un costosissimo castrato), e Anna Girò, “l’Annina del Prete Rosso”, protetta del compositore e interprete di molti ruoli chiave del teatro vivaldiano, dalla Dorilla in Tempe al Farnace, dall’Atenaide alla Griselda al Catone in Utica. Nella partitura dell’Orlando furioso la Girò è gratificata da ben sei arie e tre recitativi accompagnati, presidia luoghi chiave come la chiusa dell’atto I e l’attacco del II; è sua la scena dell’incantesimo, come anche l’impressionante complesso recitativo-aria collocato immediatamente prima del coro conclusivo. In tali situazioni la cantante avrà potuto esibire il non indifferente talento attoriale che le faceva prediligere i ruoli drammatici a quelli lirici, come conferma una celebre testimonianza di Goldoni, che per lei scrisse alcune arie della Griselda:

la signorina Giraud non ama il canto languido: vorrebbe un pezzo espressivo, vivace, un’aria che interpreti la passione con mezzi differenti, per esempio con delle parole tronche, con dei sospiri vibranti, con dell’azione, con del movimento.

Non poco talento istrionico avrà dovuto esibire anche la Lancetti-Orlando, allora appena sperimentata da Vivaldi come primo uomo nell’Ipermestra fiorentina, alla quale è riservata una serie di occasioni che sembra farsi gioco di ogni consolidata «convenienza» teatrale per imporre un profilo di personaggio profondamente plasmato dalla vicenda. Accanto a tre tradizionali arie col da capo, spettano infatti a Orlando altre due arie anomale e, nella seconda metà dell’opera, ben quattro luoghi in cui i recitativi (per tutta la partitura molto curati nella condotta melodica come nell’armonia) tracimano insensibilmente nell’arioso, con o senza accompagnamento orchestrale, mostrando un duttile adeguamento della musica alla recitazione e ai bruschi scarti di una psiche disturbata. Di particolare interesse è la drammatica prova di Orlando nell’atto II, realizzata, abbastanza sorprendentemente per la sensibilità moderna, tutta in recitativo semplice, con le uniche concessioni di due brevi ariosi (sempre col sostegno del solo continuo) e di un ritornello orchestrale a coronamento della scena, mentre Orlando rientra tra le quinte. Culmine di questa inquietudine formale è naturalmente la scena della follia, sigillo dell’atto I. Il testo di Braccioli vi segue da vicino il modello ariostesco (XXIII, 102-136) di cui sintetizza gli elementi principali (l’amara lettura delle iscrizioni, il pianto dirotto, l’abbattimento degli alberi, l’abbandono dell’armatura che lascia nudo l’eroe), fino a citarne o parafrasarne dei versi (come gli splendidi «Io son lo spirto suo… in amor pone speranza»: tre versi ariosteschi lievemente adattati). Anche in questo caso Vivaldi tratta il monologo del protagonista in recitativo semplice, variato dall’emergere, su metri poetico diversi, di due ariosi di diverso tenore (patetico, in Adagio, fa minore e sostenuto dal solo basso continuo

«Sgorgate, o lagrime»; furioso, in Allegro, Re maggiore e con accompagnamento orchestrale «Io ti getto, elmo ed usbergo», in corrispondenza dello strip-tease del paladino). A coronamento della scena il compositore colloca poi un pezzo estremamente irregolare, «Ho cento vanni al tergo», che condivide caratteristiche dell’aria e dell’arioso, attraversa numerose variazioni agogiche, e in arioso si conclude, dopo aver toccato nuovamente il recitativo: aggirando la forma principe col da capo, rinuncia così a esprimere un qualsiasi affetto ben definibile e dunque rappresentabile, a favore del caos degli affetti, tramite una realizzazione altrettanto stravagante e fantasiosa della follia del paladino quanto quella immaginata da Handel nel proprio Orlando sei anni più tardi. Propone insomma un corrispettivo dello stato mentale disturbato di Orlando, deliberata decostruzione dell’ordine logico-linguistico, a concludere l’atto con una scena drammatica grandiosa e sconcertante. Siffatto trattamento della parte di Orlando (complice la drammaturgia conservatrice di Braccioli, ancora al di qua della rigorosa formalizzazione dell’opera metastasiana nel bipolarismo recitativo-aria) incide notevolmente sull’assetto formale dell’intera opera, che presenta una densità straordinariamente elevata di ariosi e recitativi accompagnati, estesi anche agli altri personaggi. Ad Angelica, terzo ruolo per importanza, “tocca” a conferma di tanta “irregolarità” una curiosa aria monostrofica («Come purpureo fior languendo muore», III,5), inframmezzata per di più da un inserto altrui in recitativo.

NUOVO STILE E RICERCA STRUMENTALE

Questo Orlando vivaldiano si colloca in una stagione critica della storia dell’opera, negli anni in cui un’agguerrita pattuglia di scuola napoletana (Porpora Vinci Leo Hasse Pergolesi) sta mettendo in atto un profondo rinnovamento del linguaggio compositivo, operando, grazie al fascino di capolavori allori celeberrimi (gli Artaserse, le Olimpiadi, le Serve padrone), una considerevole erosione delle convenzioni barocche. Le istanze del nuovo linguaggio – il primato dell’omofonia sul contrappunto, la squadrata concinnità delle frasi canore, un’invenzione melodica disinvolta, il gusto per la simmetria del periodo, il ritmo armonico rallentato – erano ben note a Vivaldi, che ad esempio avrebbe curato l’allestimento di opere di Hasse a Ferrara. Al nuovo stile il compositore, ormai nell’ultimo tratto della parabola artistica ed esistenziale, certo non si convertì, ma ne accolse alcuni elementi, soprattutto in zone “periferiche” della partitura, ad esempio nella stilizzata eleganza dell’aria di Medoro «Qual candido fiore» (II,4). A una brillante cantabilità affatto moderna s’ispira peraltro anche una serie di arie maggiori, da «Alza in quegl’occhi» (Alcina, I,2) a «Chiara al pari di lucida stella» (Angelica, II,6), a «Così potessi anch’io» (Alcina, II,11), la cui melodia vocale è suadentemente diminuita da ritmi lombardi e melismi. E tuttavia, anche in questo titolo, che ci mostra Vivaldi al culmine della propria carriera di operista, il compositore si mostra sostanzialmente fedele al proprio ideale di teatro musicale, in cui la voce è coadiuvata da un’orchestra mai confinata allo sfondo, bensì chiamata a collaborare efficacemente ai grandi affreschi naturalistici (ad esempio nell’aria di Orlando «Sorge l’irato nembo», II,4) come all’evocazione di un intenso clima sentimentale (anche laddove questo è simulato, come nella splendida aria di Angelica «Poveri affetti miei, siete innocenti», III,5). Ben più che non Handel o a maggior ragione i più giovani “napoletani”, il “prete rosso” predilige infatti una scrittura strumentale densa, fondamentalmente per archi a quattro parti, col raddoppio dei fiati, che non si piega, come nei fautori del nuovo stile, alla centralità della voce. A fronte di questa formula aurea dell’orchestrazione vivaldiana, risalta l’unica aria con strumento obbligato dell’intera partitura, «Sol da te, mio dolce amore» (Ruggiero, I,11), gioiello giustamente celebre in cui il compositore impegna in una parte virtuosistica il raro flauto traverso, strumento nordico ancora relativamente poco conosciuto nell’Italia del 1727. L’anno successivo, mentre all’Ospedale della Pietà Ignazio Siber veniva assunto come «maestro di traversiè», Vivaldi avrebbe dedicato allo strumento la raccolta di sei concerti op. X, mostrando anche in questo caso cospicue capacità di aggiornamento rispetto alla più moderna produzione d’Oltralpe, nonché il desiderio inesausto di scendere ancora e sempre caparbiamente in campo nel cimento dell’armonia e dell’invenzione.

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